Barbabietola, una vita passata in sordina

Chi non conosce la barbabietola da zucchero? È forse una delle poche coltivazioni che molti di noi ricordano dalla scuola elementare. A chiunque fosse incerto su quali fossero le colture di una determinata regione bastava nominare questa coltura, che accomunava l’Italia da nord a sud. Ma non è stato sempre così.
È pur vero che la barbabietola viene citata già in un papiro babilonese e che era diffusa nel mondo greco, ma per diversi secoli fu la canna d’oltreoceano a fornire il preziosissimo zucchero e non la rapa, usata primariamente come medicinale. Inoltre, almeno fino al XV secolo, veniva coltivata per le foglie e non per il tubero, come ci dimostrano le cronache medievali.
Fu solo però nel XVII secolo che Olivier de Serres notò che la barbabietola produceva un succo simile allo sciroppo di zucchero. La scoperta cadde però nel dimenticatoio fino al 1747, quando Franz Karl Achard, allievo di quell’Andreas Sigismund Marggraf che aveva dimostrato come i cristalli di zucchero ricavati dalla barbabietola fossero gli stessi di quelli della canna, mise a punto un metodo per produrre commercialmente lo zucchero.
Eppure lo zucchero estratto dalla canna continuò a essere preferito. Fu con le guerre napoleoniche e con l’embargo che colpì la canna da zucchero (1806) che la sperimentazione poté subire un’accelerazione. Napoleone rimase talmente estasiato quando, nel 1811, gli vennero mostrati dei panetti di zucchero ricavati dalla barbabietola che ne ordinò la coltivazione su ben 320 km2 di terreno. In breve sorsero più di 300 fabbriche in tutta Europa.
In Italia la coltivazione della barbabietola arrivò alla fine del XVII secolo: persino Camillo Benso conte di Cavour cercò, nei suoi possedimenti, di migliorarne la coltura.

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